Lo Yoga è una delle sei Scuole ortodosse di pensiero filosofico-religioso Hindu dell’India antica. Praticato inizialmente con modalità diverse dalle caste più nobili, esso mise le sue prime radici nelle culture del periodo vedico, a partire dal 1500 a.C. sino al 700 a.C. e poi nell’impostazione religiosa e mistica delle scritture Upanishad.
Queste ultime costituiscono la parte conclusiva dei Veda. Esse sono trattati di diversa estensione, risalenti al periodo che va dall’ottavo secolo a.C. al quarto secolo a.C. e le prime precedono l’avvento dell’era buddista.
Le Upanishad appartengono alle diverse Scuole indiane della rivelazione. Circa duecento sono arrivate alla nostra cultura, benché per tradizione quelle più considerate sono 108. E’ interessante notare che il termine Upanishad deriva da “upa-nisad“ (sedersi vicino) che allude alla tradizionale modalità di trasmissione diretta dal Maestro all’Allievo qualificato alla vicinanza dell’Insegnante.
La Taittiriya Upanishad fu il primo trattato che esaminò l’essere umano sotto diversi aspetti. Questa disamina metafisica realizza in sintesi che in un individuo esistono diversi corpi, diverse stratificazioni tra loro interpenetranti e strettamente correlate. Si parla di questi “involucri sottili e sovrapposti” definendoli come i cinque respiri, i cinque atma ovvero i cinque sé.
Nello Yoga questi substrati componenti l’essere umano, che si estendono dal nostro centro o sé sino allo strato più esterno del nostro corpo fisico, si chiamano kosha orivestimenti. Secondo lo Yoga, il corpo causale–Anandamayakosha (il nostro Sé), il corpo mentale superiore-Vijnanamayakosha , il corpo mentale inferiore-Manomayakosha, il corpo energetico-Pranamayakosha ed il corpo fisico-Annamayakosha, sono interdipendenti fra loro. Un cambiamento apportato su uno di questi cinque kosha può influenzare anche gli altri, analogamente ad un macrocosmo coi suoi elementi che coesistono in dinamica armonia. Chi è stressato e si arrabbia, ad esempio, coinvolge il corpo mentale inferiore, che è in grado di influenzare il corpo energetico ed il corpo fisico, mutando in quest’ultimo i parametri vitali come l’atto respiratorio, la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa. Analogamente, nella cultura occidentale, si sostiene che esista uno stretto legame fra psichismo, manifestazioni del corpo ed influenza di questo sul nostro stato mentale.
ANNAMAYAKOSHA è dunque il corpo fisico che si è formato per mezzo degli alimenti, della caratteristica dei nostri cromosomi, delle patologie, dei traumi e delle condizioni ambientali come la temperatura, l’aria respirata, la luce, l’umidità.
Dei cinque menzionati, nello Yoga , annamayakosha rappresenta lo strato più grossolano del corpo che esiste nello spazio e nel tempo, ed in quanto tale ci permette di svolgere su di esso una grande varietà di azioni.
Nello Yoga la cura del corpo è vista attentamente come il presupposto fondamentale per accedere al benessere fisico e psichico totale. La disciplina insegna tecniche molto raffinate per migliorare, sotto molti aspetti, le condizioni del proprio corpo ed accedere così a stati di coscienza superiori. Queste tecniche sono chiamate Asana o positure.
Patanjali, autorevole interprete di questa disciplina totale, nei suoi Yogasutra, parla degli asana nella Sezione II, sutra 46-48:
II, 46 – stira-sukham asanam
La positura (dovrebbe essere) stabile e comoda.
II, 47 – Prayatna-saithilyananta-samapattibhyam
Mediante il rilassamento dello sforzo e la meditazione sul “senza fine” (si domina una positura)
II, 48 – Tato dvamdvanabhighatah
Da ciò, la mancanza di attacchi da parte delle coppie di opposti
Coloro che praticano lo Yoga della Tradizione, hanno sicuramente familiarizzato con molti esercizi di asana, ma la maggior parte delle persone che non conoscono la disciplina li confondono con la pratica fisica della ginnastica, che è semplicemente finalizzata a rinvigorire il corpo. Le specializzazioni di Hatha Yoga ( lo yoga fisico ) e Raja Yoga ( lo yoga reale ), pur mantenendo lo stesso approccio agli asana, assumono ruoli e finalità diverse. Questa distinzione è necessaria in quanto chi si avvicinerà a questa disciplina in conseguenza di un disturbo da stress, dovrà essere guidato dall’insegnante a privilegiare una delle due specializzazioni.
Nell’Hata Yoga infatti gli asana vengono trattati in modo molto ampio e la vasta letteratura delles tecniche esistenti tratta in dettaglio almeno 84 positure fra le centinaia esistenti.
Sul piano fisico un asana ha le seguenti caratteristiche: STABILITA’, IMMOBILITA’, DURATA e RILASSAMENTO.
Sul piano respiratorio e mentale si distingue per gli attributi di: CONSAPEVOLEZZA DEL RESPIRO e CONSAPEVOLEZZA DELLA MENTE.
Le posizioni che il corpo può assumere durante le pratiche possono essere sintetizzate in:
POSIZIONI IN PIEDI, SEDUTE E DERIVATE DA ESSE, SUPINE, PRONE, IN GINOCCHIO, IN APPOGGIO SULLE BRACCIA, IN EQUILIBRIO, IN ESTENSIONE ed IN RILASSAMENTO.
Alcuni asana interessano anche la FASCIA ADDOMINALE e GLI ORGANI VISCERALI.
Vi sono asana che esercitano azioni sul sistema immunitario ed ormonale.
Tutte queste elencate sono in grado, se praticate con dovizia tecnica, di determinare mutamenti molto positivi nel corpo, migliorando l’elasticità, il portamento, il funzionamento di alcune ghiandole endocrine e la salute in generale.
Una tra le sequenze di asana più efficaci è la serie Rishikesh con le seguenti modalità e positure:
– 1 minuto in Sarvangasana ( positura della candela )
– 2 minuti in Halasana ( positura dell’aratro )
– 1 minuto in Matsyasana ( positura del pesce )
– 2 minuti in Paschimottanasana ( positura della pinza )
– 1 minuto in Bhujangasana ( positura del cobra )
– 1 minuto in Shalabasana ( positura della locusta )
– ½ minuto in Dhanurasana ( positura dell’arco )
– 1 minuto in Ardha-Matsyendrasana ( torsione in positura seduta )
– Da 1 a 10 minuti in Shirshasana ( positura capovolta) solo per yogin esperti.
Per gli allievi è indicata Viparita Karani Mudra, che determina effetti similari;
– Da 1 a 2 minuti di nadi shuddi ( purificazione dei canali energetici )
– 3 minuti di respirazione completa;
– 3 minuti di rilassamento in Shavasana ( positura del cadavere )
Gli asana così praticati sono anche in grado di influenzare positivamente il corpo energetico, perché attivano le strade del prana chiamate nadi, anticipando i benefici del pranayama.
La pratica Hata Yoga ha come risultato la FERMEZZA POSTURALE, LA SCOMPARSA DELLE MALATTIE e LA LEGGEREZZA FISICA.
Il Raja Yoga si differenzia dal precedente perché è più orientato a determinare dei mutamenti della coscienza attraverso il controllo volontario sulla mente, per una soppressione graduale dei turbini mentali (citta-vrtti nirodhah ). Questa tecnica è finalizzata ad agire sul corpo fisico, affinché realizzi la completa immobilità su alcune positure: quelle che favoriscono il silenzio mentale necessario alla pratica meditativa, prolungata nel tempo e senza sforzo.
Fra questi asana vanno menzionati: sukhasana (positura semplice – Figura 11); padmasana (positura del loto) parificabile a siddhasana (positura perfetta – Figura 12); Vajrasana (positura del diamante – Figura 13).
In alternativa agli asana elencati, si può ripiegare anche su maitryasana (positura seduta su un supporto – Figura 14) sopratutto per privilegiare sempre, in caso di difficoltà, il mantenimento del confort nell’immobilità:
Figura 11 – sukhasana
Figura 13 – Vajrasana
Figura 12 – siddhasana
Figura 14 – maitryasana
II, 46 “stira-sukham asanam” – La positura ( dovrebbe essere ) stabile e comoda.
In conclusione, nel Raja Yoga l’allievo che pratica la meditazione deve ottenere, attraverso gli asana, il pieno dominio di una “stabile e comoda” immobilità per dimenticare completamente il corpo e concentrare la propria attenzione all’osservazione della mente.
Quando eseguiamo un asana o compiamo un’azione, possiamo distinguere due coscienze: periferica e centrale.
Una coscienza che rimane impegnata su ciò che facciamo, la coscienza periferica che resta sugli eventi.
Una seconda coscienza centrale che rimane focalizzata con la stessa attitudine della calma che regna nell’occhio di un ciclone. Nell’esecuzione dell’asana dobbiamo prendere coscienza del movimento del corpo, ma vi è una coscienza centrale che dovrebbe sempre accompagnarci e che riguarda il senso di ciò che facciamo. Una parte di noi, la coscienza centrale, deve essere orientata in modo da permetterci di comprendere meglio la realtà della coscienza periferica.
Lo yogi è presente a tutto e assente a tutto; ha in sé questo costante eterno riferimento intorno al quale danza la vita e si esprime la dualità, intorno a questa unità dell’essere.
Questa unità dell’essere, questa coscienza centrale, è immobilità.(Pratica degli Asana: tratto dalla lezione di Eros Selvanizza in data 8 aprile 2006)
Per apprendere il dominio totale di un asana Patanjali enfatizza due necessità nel sutra II, 47.
La prima è il “rilassamento dallo sforzo necessario al mantenimento dell’immobilità”, perché quest’ultimo sarebbe una fonte di grande distrazione della mente conscia che dovrà invece essere totalmente libera e svincolata dal corpo. Questo è un automatismo impegnativo da raggiungere, che richiede uno sforzo iniziale graduale che rompa il legame fra mente conscia e corpo e trasferisca il controllo di quest’ultimo sulla mente inconscia.
La seconda necessità per integrare la stabilità durante l’asana, è la “meditazione sul senza fine”, ovvero sull’ananta, il grande serpente che secondo la mitologia hindù, cinge la terra. Questa rappresentazione simbolica è in pratica l’invito rivolto all’allievo, che esegue un asana, a concentrarsi sulla forza cosmica che permette alla terra di mantenere un’orbita costante intorno al sole. Attraverso questo atteggiamento mentale molto specifico, chi pratica un asana deve ricercare ed integrare gli automatismi che lo mantengono in posizione stabile.
Il risultato importante che deriverà dalla disciplinata applicazione delle pratiche di asana, spiegate nei sutra II, 46 e 47, viene rivelato da Patanjali nel sutra II, 48 con “la mancanza di attacchi da parte delle coppie di opposti” nell’affermazione sanscrita “Tato dvamdvanabhighatah”.
Queste “dvamdva” sono tutte le condizioni contrarie, esterne ed interne, immersi nelle quali noi cerchiamo di condurre la nostra vita, come ad esempio la luce ed il buio, il caldo ed il freddo, la felicità e la tristezza, la salute e la malattia. Condizioni riferite al corpo ed alla mente che impediscono alla nostra Coscienza di penetrare nella profonda interiorità.
La Coscienza, che si esprime attraverso la mente stessa, non può entrare in contatto con la materia e procedere verso la realizzazione del Sé, senza l’intervento del prana, il soffio vitale. Il prana che fluisce all’interno di pranamayakosha (il corpo energetico) è il catalizzatore delle connessioni fra la materia e l’energia sui corpi più grossolani, nonché della mente e della coscienza sugli strati più sottili dell’essere umano, secondo la visione dello Yoga.
Con questo possiamo affermare che il prana è attivo e necessario su tutti i corpi sottili.
Nell’Hata Yoga il controllo delle correnti praniche viene utilizzato per il controllo dei mutamenti della coscienza e del flusso dei pensieri (citta-vrtti). Nel Raja Yoga il controllo delle citta-vrtti avviene attraverso la forza della volontà con l’ausilio del prana da parte della Coscienza.
Nell’una e nell’altra specifica disciplina dello Yoga, il controllo e l’armonizzazione del prana, captato dal corpo sino al suo utilizzo ottimale, si ottiene attraverso le tecniche di Pranayama.
Patanjali parla del pranayama negli Yogasutra dalla sezione II,49 sino alla sezione II,53.
II, 49 – Tasmin sati svasa-prasvasayor gativicchedah pranayamah
Ciò essendo stato (compiuto) (segue il) pranayama, che è la cessazione della inspirazione e della espirazione.
II, 50 – Bahyabhyantara-stambha-vrttir desakalasamkhyabhih paridrsto dirghasuksmah
(Esso si trova in) modificazione esterna, interna o soppressa; è regolata
dal luogo, dal tempo e dal numero, (e progressivamente diviene) prolungato e
sottile.
II, 51 – Bahyabhyantara-visayaksepi caturthah
Quel pranayama, che oltrepassa la sfera dell’interno e dell’esterno, costituisce la quarta Varietà.
II, 52 – Tatah ksiyate prakasavaranam
Grazie a lui si dissolve lo schermo della luce.
II, 53 – Dharanasu ca yogyata manasah
E (si ha) la capacità della mente di concentrarsi.
Prana-yama significa letteralmente “controllo del prana” e diversamente da quanto si pensi, il prana ed il respiro non sono la stessa cosa. Questo significa che la morte di un individuo non avviene quando cessa il respiro, ma bensì quando il prana abbandona il suo corpo. E pur restando soltanto una delle manifestazioni grossolane del prana nel nostro corpo fisico, la regolazione del respiro viene utilizzata in moltissime tecniche di pranayama per manipolare il prana stesso nei corpi sottili.
Chi utilizza i metodi di controllo del prana, deve essere consapevole che essi agiscono su sistemi complessi del corpo che sono reali, benché non pienamente riconosciuti dalla scienza moderna.
E’ sconsigliabile pertanto esperire nel pranayama con pratiche fai da tè, senza il supporto di un insegnante competente e senza un’adeguata preparazione nei tre “anga” di Yama, Niyama e Asana.
Premesso questo e ribadito il concetto che respiro e prana sono in rapporto tra loro ma sono diverse, è assolutamente utile che una persona interessata ad un miglioramento del suo stato di salute, intraprenda una via di conoscenza e di esperienza su come respirare correttamente.
Questo vale sopratutto per le persone che subiscono quotidianamente le conseguenze dello stress, quando la consapevole osservazione di come si respira diviene importante per riprendere il controllo.
Se respiriamo profondamente, armonizzando le inversioni tra inspiro ed espiro, non eseguiamo una tecnica di pranayama, ma di fatto immettiamo energia sottile nel nostro corpo. Questa operazione non ha controindicazioni ed è particolarmente consigliata per attenuare la sindrome da stress.
Anche la tecnica di respirazione a narici alterne è molto utilizzata per il suo effetto calmante e riequilibrante sul sistema nervoso e va eseguita con inspiri ed espiri regolari. Nello Yoga questa pratica è denominata nadi-shodhana ovvero nadi-shuddi (Figura 15 e figura 16) e viene considerata una tecnica preliminare di riequilibrio e purificazione delle nadi che anticipa pratiche più evolute di pranayama e dharana (concentrazione).
Figura 15 - Nadi-shodhana
(primo inspiro eseguito sempre dalla narice sinistra)
Figura 16 - Nadi-shodhana
(secondo inspiro eseguito sempre dalla narice destra)
La pratica concreta di pranayama inizia quando si introducono tecniche di ritenzione del respiro per tempi prolungati, tra inspiro ed espiro e viceversa. Pertanto, se ad esempio integriamo la tecnica di respirazione a narici alterne con intervalli progressivamente più lunghi di sospensione fra inspiro ed espiro, andiamo già ad influire in modo apprezzabile sui flussi delle correnti praniche del nostro corpo. Quindi, qualunque tecnica di ritenzione del respiro, durante una pratica di pranayama, assume nello Yoga, la denominazione di kumbhaka. Le tecniche relative a queste materia sono tanto affascinanti quanto ricche di definizioni. In merito a ciò i termini puraka e recaka indicano la inspirazione e l’espirazione, mentre una fase di kumbhaka accompagnata da puraka e recaka viene definita sahita kumbhaka.
Invece, l’esecuzione del pranayama, così come scritto da Patanjali nel sutra II,49, va interpretata come kevala kumbhaka, che prevede l’utilizzo prolungato del kumbhaka, con l’eliminazione delle fasi di puraka e recaka. Questa tecnica molto delicata, che consente allo yogin il controllo del prana, diviene l’elemento essenziale del pranayama per accedere agli stati di coscienza superiori di dharana (concentrazione), dhyana (meditazione) e samadhi (supercoscienza).
Nel pranayama, il kumbhaka racchiude però in sè stesso due aspetti estremamente importanti che è doveroso enfatizzare: non è soltanto l’elemento essenziale di manipolazione del prana, ma diviene la fonte stessa di rischio insita nel pranayama.
Per questa ragione, prima di esperire in simili pratiche, si raccomanda di servirsi sempre del supporto di un Insegnante qualificato. Nello stesso modo si ritiene essenziale la padronanza e l’esperienza negli esercizi di asana .
Patanjali scende ulteriormente nei dettagli delle tecniche pranayama nel sutra II,50, sottolineando che il respiro può essere trattenuto “all’esterno” dopo l’espirazione, “all’interno” dopo un inspiro, ovvero fermato in una “posizione” diversa. Questo determina ciò che viene sottinteso dall’autore come “i tre tipi di pranayama”.
Un altro aspetto che viene considerato, è il luogo dove questa pratica viene eseguita, il quale sarà anche influenzato dalle condizioni climatiche.
Il terzo fattore citato nel sutra è il tempo, che potrebbe non riguardare solo la durata delle tre fasi respiratorie, ma anche la stagione in cui la pratica viene eseguita, la quale influenzerà pure il regime alimentare.
Il quarto fattore è in riferimento al numero di cicli di quel particolare tipo di pranayama in una seduta ed il numero di sedute praticate nel periodo considerato.
Infine vengono sintetizzati col termine “prolungato e sottile” i risultati che occorre perseguire attraverso una lunga e disciplinata progressione della pratica: il kumbhaka dovrà diventare gradualmente prolungato e senza alcun sforzo, perché possa trasformare un processo esterno di controllo del respiro, in una gestione consapevole del soffio vitale in pranamayakosha.
Quello che invece viene definito come pranayama reale è contenuto nel sutra II,51.
Esso viene qualificato come “quarta varietà” e trascende i movimenti ed i ritmi del respiro. Nel kevala kumbhaka lo yogin esperto utilizza le correnti praniche nelle nadi per dirigerle deliberatamente dove intende modificare gli stati di coscienza.
Questa condizione potrebbe anche svilupparsi naturalmente durante il corso di una pratica di pranayama, che viene finalizzata da Patanjali come prerequisito all’Antaranga Yoga. Quest’ultima raggruppa gli Stadi superiori della Disciplina, prima fra tutti la dharana cioè la concentrazione.
I risultati della pratica di pranayama sono poi riassunti sinteticamente nei sutra II,52 e II,53.
La padronanza delle tecniche di controllo del prana permette allo yogin di avvicinare il corpo fisico ai corpi più sottili, attivando i centri psichici, venendo a contatto quindi con la loro luminosità ( “…grazie a lui si dissolve lo schermo della luce” ).
Questa capacità acquisita ci permette soprattutto di formare immagini vivide in uno spazio mentale chiamato Chidakasha, ne impedisce il loro offuscamento, permette una loro opportuna manipolazione e prepara la mente alle successive pratiche di dharana e dhyana ( “…e si ha la capacità della mente di concentrarsi” ).
In conclusione, nelle pratiche in palestra, asana e pranayama, possono essere viste come discipline complementari ed essenziali per accedere agli stadi successivi nello Yoga Reale. Tuttavia, già da sole sono molto importanti per ritrovare l’armonia interiore fra “corpo e spirito” che disperdiamo in condizione di stress.
La seduta di pranayama dovrà seguire una progressione armonica con caratteristiche e finalità generali tali da:
Introdurre tecniche che sblocchino le energie in modo che possano circolare
Eseguire tecniche che catturano ed accumulano energia
Eseguire tecniche che facilitano l’equilibrio delle energie e la loro distribuzione
Concludere con tecniche che finalizzino le energie catturate in sushumna, la nadi pricipale
Per crescere nello Yoga e scongiurare altri presupposti alla condizione stressogena, un buon allievo dovrà sempre integrare queste pratiche coi contenuti etici e morali di Yama e Nyama.